Sulla via di Berlino La Marcia
Descrizione
Youssef Wakkas è un autore del nostro tempo tormentato.
In questa sua Marcia forzata mette in scena catastrofi surreali attraverso fantasiose metafore di sperdimenti psicologici, di traumi personali e collettivi, riuscendo a farci assaporare, contestualmente, il colore del mondo mediorientale, il fascino di galee e galeazze, visir e gran sultani, la poesia di tempi lontani che hanno tradito le loro promesse di felicità. Il suo narrare dà voce al vagare nell’incubo della perdita di ogni riferimento dell’umano, è la cronaca dell’attrez – zarsi in qualche modo, per chi ha vissuto da uomo, a vivere la costrizione del ritorno ai primordi, nell’inferno della bestialità. Nadia, Milad, Àdel “il guerriero malinconico”, sono tutti protagonisti di un romanzo complesso e appassionante che ci conduce nell’evidenza della tragica insensatezza della guerra, di ogni guerra, in ogni tempo, e che testimonia e racconta, come poco altro, la nostra contemporaneità.
Additional Information
Formato | 12,5 x 20,5 cm |
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Autore
È nato in Siria nel 1955. Ha iniziato a scrivere nel 1995 partecipando per caso al concorso letterario “Eks & Tra”. Nel 1998 ha ricevuto la medaglia del Presidente della Repubblica Italiana per il suo impegno nell’ambito della letteratura italiana della migrazione. Sulla sua svolta letteraria e sulla sua vita più in generale, Rai3 ha realizzato una fiction nel 2004 e la televisione della Svizzera Italiana un documentario. Nel 2005 ha lasciato l’Italia per tornare in Siria, ma dal 2016 è di nuovo in Italia a causa dei tragici eventi che sconvolgono il suo paese. Tra le sue pubblicazioni: Fogli sbarrati. Viaggio surreale tra carcerati e migranti (Eks & Tra 2002); Terra mobile (Cosmo Iannone Editore 2004); La talpa nel soffitto (Ediarco 2005); L’uomo parlante (Ediarco 2007); Opera 99. L’autobus dei sogni (Youcanprint 2016).
Recensioni
SCRITTURE PARALLELE
Guerra in guerra
Di Gianluca Bocchinfuso – Direttore della rivista “IL SIGNALE” – n° 109 – Febbraio 2018
Non è la prima volta che questa rubrica ospita interventi e riflessioni sulla scrittura di Yousef Wakkas, autore siriano arrivato per la prima volta nel nostro paese nel 1991. Anche questo ultimo romanzo(1), “Sulla via di Berlino”, conferma la natura mobile ed empirica della sua scrittura sia dal punto di vista della struttura che della forma. La struttura può essere letta in due modi: il primo, globale, all’interno della linearità dei capitoli con i temi e le narrazioni legate alla storia e, soprattutto, alla metastoria; il secondo, locale, partendo dal mezzo o da un punto qualsiasi perché i singoli capitoli reggono su un piano di racconti separati: per intensità, organizzazione, storia. La forma del romanzo predilige il discorso diretto con un uso essenziale delle parole nel loro significato denotativo che non lascia alibi interpretativi o letture arzigogolate. L’uso delle sinestesie e di concetti particolari (“Occhi saccenti”, “Angoscia torpida”) fa della lingua di Wakkas un caso linguistico da studiare anche a livello accademico e da approfondire oltre questo romanzo. Tale scelta, con frasi nette e pulite, si lega al tema-madre del romanzo: la guerra. O meglio, il tempo e il passaggio di guerra in guerra. Un romanzo che è testimonianza letteraria della maturità raggiunta da molti autori translingui o migranti. Sono lontani i tempi dei contenuti documentaristici e di sola denuncia ispirati da piani autobiografici. “Sulla via di Berlino” è un romanzo pieno, completo, originale. Su più canali. Per questo, epico.
La guerra appare come compagna funesta dell’uomo nell’andirivieni tra presente-passato-presente. Una guerra che non ha luogo ma li abita tutti, nell’accezione che lo scrittore dà della dimensione di un fenomeno rapsodico e, al tempo stesso, attuale. C’è la guerra in Siria, certo, e c’è l’Isis che vuole rifondare il “Califfato” attraverso le parole e le lezioni di un Emiro. Ma il libro di Wakkas non è solo questo; non è solo narrazione dell’attualità e del tempo presente. Non è cronaca. La sua natura è epica con una forte spinta allo straniamento del lettore.
“Non saprei dire con esattezza chi avesse iniziato quell’avventura, e perché mai i costi delle anfore di olio di oliva, di grano saraceno e la seta di Nishapur erano saliti alle stelle. Ma sono certo che quando gli uomini sputano sangue, provando il piacere di essere malvagi, non ci sarà mai spazio per ragionare con la testa. Anche perché i colpi di cannoni, le grida, il pianto delle donne impediscono di comunicare con le parole. In sostanza, bisognava stare al gioco, a costo di finire come cibo per pesci.
Tutto a un tratto, mi trovai su galeone amico, con il difficile compito di comandare la battaglia. Lessi ad alta voce il messaggio del Gran Sultano e ordinai al timoniere di virare verso sud-ovest. In quella direzione avevo notato un valico che mi avrebbe permesso di sfondare le galee nemiche, per poi sferrare un attacco frontale alle galeazze dotate di cannoni. Intanto passavo a Nadia. Non volevo che morisse, perciò impartii un altro ordine ai giannizzeri impegnati a combattere: la voglio viva, senza un graffio sul corpo”. (2)
Rimane intatta la voce narrante, quella del protagonista Milad Bin Kanaàn e del suo alter ego Àdel, ma i cambiamenti di luoghi, situazioni, tempi, personaggi indicano fulminei passaggi, trasfigurazioni tra il prima e il dopo dei personaggi, il loro sdoppiamento, lo svelamento/velamento di luoghi e azioni. Questi aspetti – che rimandano alla tipicità narrativa di Wakkas di muoversi dentro dimensioni oniriche e visionarie anche oltre il piano surreale che la letteratura italiana ha scoperto con Dino Buzzati(3) e Tommaso Landolfi(4) – sono la forza del romanzo nel suo essere storia e nell’andare oltre la storia fino a toccare l’immaginazione, dando circolarità inventiva alla narrazione e libertà di scegliere il punto da cui partire a cui arrivare. Perché questo romanzo lo si può sospendere in più parti. Si può decidere di “non usare” tutti i ventotto capitoli del puzzle storico-narrativo e lasciarsi guidare dall’indole letteraria di Wakkas che spiazza, sospende, riprende, mescola, riattiva. Incrociarla in titoli evocativi: Madame Henriette sospesa con le sue ragazze sopra una corvetta andata in fiamme; Fino a quel momento non sapevamo che mio cugino Àdel fosse un Guerriero Santo; La piccola Mata Hari e gli alieni di Hezchial; Il re di tutti i semiti nascerà sull’isola di Samos. Si possono fare inferenze soggettive senza seguirne la concettualizzazione e la lettura critica all’interno di tutta la cornice. Questo è elemento di forza che rimanda alla cultura popolare e alla narrazione orale: raccontare, fermarsi, riprendere, ripartire. Una mescolanza di suggestioni e di parole. Con un tema o più temi sempre in divenire.
In tale ottica, in questo romanzo, viaggiamo dalla battaglia di Lepanto al rapimento di padre Paolo Dall’Oglio in Siria, dai trafficanti di armi russi alla rifondazione dell’antico Califfato, dalla guerra tra arabi e bizantini ai campi profughi. Il protagonista diventa tanti interpreti e assume diversi volti e più ruoli.
Il filo rosso rimane la guerra che, negli ultimi anni, l’autore ha vissuto sulla propria pelle, essendo ritornato in Italia nel 2015 dopo dieci anni vissuti nella Siria funestata da squilibri prima e guerra civile poi con momenti di vita estrema. Un conflitto che spesso ha registrato l’immobilismo della comunità internazionale all’interno di uno scacchiere, quello mediorientale, che fa gola a molti e che non riesce a liberarsi dalla madre di tutti i conflitti, quello israelo-palestinese. Il protagonista fa trasparire questo senso di impotenza e di immobilismo delle diplomazie; le sue idee, che impone al gruppo che fa la marcia dalla Siria verso Berlino attraverso un pezzo di Europa pulsante, sono una metafora di un pensiero in conflitto. Di un continuo senso di ricerca e di pace. Se da un lato abbiamo Milad, dall’altro abbiamo Nadia (l’emblema della Siria, delle donne siriane, delle vinte, delle custodi della storia e della memoria affettiva), colei che paga a causa della guerra, che non si libera mai, che è soggiogata. Rimane in catene di fronte all’ignoto della vita e all’incomprensibile senso che la caratterizza. Si piange di lei e del suo futuro.
“Tornando a casa, trovai Nadia nascosta in cantina; la notte di terrore non era ancora finita. Àdel, dopo aver sparato su tutte le lampadine, cercava l’orsacchiotto di Nadia per proseguire il tiro a segno. Staccai dal muro un’ascia medievale e mi nascosi dietro la porta della cucina. Mai avrei pensato di uccidere Àdel. Se l’avessi fatto, sarei maledetto per sette generazioni, pensavo con le lacrime agli occhi. Sangue del mio sangue, la mia nima ribelle. A un tratto, lo sentii gemere come un animale stremato. Era fermo a meno di mezzo metro da me, ma il buio pesto non mi permetteva di distinguere la sua sagoma. Sollevai l’ascia in alto e colpii con tutta la mia forza. La voce di Nadia irruppe nell’aria, acuta, e trasudava di un dolore terribile.
“Oh, Dio!”, mormorai esterrefatto: Èzraìl, con passi lenti e risate agghiaccianti, stava avviandosi verso la porta dell’ingresso.
“No!”, gridai, coprendomi la faccia con le mani(5)”.
Questo romanzo è un ampio sguardo sul mondo e sulle relazioni che hanno fatto la storia e hanno determinato le scelte degli uomini. Se l’elemento negativo e devastante – la guerra- la fa da padrone è perché l’occhio dello scrittore (e di conseguenza del lettore) non si schioda dal germe che la produce e dalle modalità che l’alimenta. Tutti i personaggi si portano dietro la brutalità della Sezione 251, il Centro di Detenzione gestito dai servizi segreti militari siriani: una brutalità che, in alcuni passaggi, supera quella dello stesso boia Ismail.
Non c’è una conclusione in questa storia perché non c’è pace definitiva: tra Milad e Àdel, tra popoli, tra religioni e soggetti divini che entrano nelle pagine fino all’epilogo. La marcia si conclude perché coincide con un momento di quiete. Ma solo apparente quiete. È di nuovo sospensione senza perdere collegamenti, strutture della realtà, senso della narrazione.
“Tutt’a un tratto, il cielo s’illuminò di una luce abbagliante, e tuoni potenti scossero la clinica, mentre nubi neri cominciarono a rovesciare sul piccolo giardino una quantità impressionante di grandine. Compresi che quel segnale significava la morte: il punto calcato con furia dal grande Dio dei semiti per mettere fine a una storia che durata fin troppo. Fu una prova determinante che la nostra marcia doveva terminare lì, a ridosso del nono tornante che finiva direttamente tra le Sue braccia accoglienti” (6).
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- Yousef Wakkas, Sulla via di Berlino. La marcia. Cosmo Iannone Editore, Isernia 2017
- Yousef Wakkas, op. cit. pag. 200
- Dunque ascoltiamo senza batter ciglia la famosa invasione degli orsi in Sicilia: “La quale fu nei tempo dei tempi/ quando le bestie erano buone e gli uomini ampi/ in quegli anni la Sicilia non era/ come adesso ma in un’altra maniera/ alte montagne si levavano al cielo/ con la cima coperta di gelo/ e in mezzo alle montagne i vulcani/ che avevano la forma di pani/ Specialmente uno ce n’era/ con un fumo che pareva una bandiera/ e di notte ululava come ossesso/ (non ha finito di ululare neppure adesso). Nelle buie caverne di queste montagne/ vivevano gli orsi mangiando castagne/ funghi, licheni, bacche di ginepro, tartufi/ e se ne cibavano finché erano stufi”. Da Dino Buzzati, “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, Oscar Mondadori, Milano 2015, pp. 17-18
- “Vedete un po’: se, verbigrazia, voi foste imparentato colla dinastia regnante del Siam (o Thailand), non sarebbe questo comunque un vostro diritto, sebben (per dir così) in potenza? È solo un esempio, d’altronde. O piuttosto, foste imparentato, sia pure remotamente, a membro di famiglia che già avesse regnato sul Siam (o Thailand) dei cui diritti l’attuale famiglia regnante fosse considerata usurpatrice (non fosse che da un uomo al mondo)? Evidentemente, fra l’altro, il sovrano considerato legittimo, o chi ne discende, ha un intero sciame d’altri parenti più o meno stretti, più stretti nondimeno di voi medesimo, i quali tutti potrebbero, al momento opportuno, prima di voi far valere le loro pretese (ossia ciascuno in caso d’estinzione del ramo più prossimo), ma pure un diritto, se non altro teorico al trono del Siam (o Thailand) ce l’avreste in ogni modo né vorreste rinunziarvi. È chiaro?”. Da Tommaso Landolfi, “Il matrimonio segreto”, in “La spada”, Adelphi, Milano 2001, pag. 28.
- Yousef Wakkas, op. cit. pp. 223-224
- Yousef Wakkas, op. cit. pag. 335
Recensioni
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